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Corte d'Appello di Bologna > Patto di prova
Data: 29/05/2000
Giudice: Benassi
Tipo Provvedimento: Sentenza
Numero Provvedimento: Non disponibile
Parti: CAMST s.c.a r.l. / M.
ACCOGLIMENTO DI UNA CASA PETENDI DIVERSA DA QUELLA CONTENUTA NEL RICORSO INTRODUTTIVO - VIZIO DELLA SENTENZA - PATTO DI PROVA - MANCATA RELAZIONE CAUSALE TRA IL RECESSO E L'ESITO NEGATIVO DELLA PROVA - ILLEGITTIMITA' - OBBLIGO DI REINTEGRAZIONE.


Adducendo una serie di motivi di illegittimità e/o nullità del patto di prova una lavoratrice assunta presso la CAMST di Parma chiedeva al Pretore di quella città (nel corso del processo "trasformatosi" in Giudice unico del Tribunale) la reintegrazione nel posto di lavoro. Il Tribunale di Parma accoglieva la domanda, incorrendo però in un vizio di ultrapetizione che veniva censurato dalla Corte d'Appello di Bologna la quale riteneva fondato, in tal senso, il primo motivo d'appello proposto della società. Giacchè però l'appellata aveva comunque riproposto le domande non esaminate dal primo giudice - evitando così di incorrere nella decadenza sancita dall'art. 346 cod. proc. civ. - la Corte d'Appello di Bologna le ha ritenute ugualmente meritevoli di accoglimento. In particolare nella sentenza oggetto di commento si ribadiscono, con perfetta sintesi e con richiami alla giurisprudenza anche recentissima del Supremo Collegio, i principi fondamentali sui quali ruotano tutte le decisioni in materia di patto di prova. Principi secondo i quali «…(Cass. n. 484/1994) il recesso dal rapporto di lavoro in prova è illegittimo ove vi sia stata scorretta conduzione dell'esperimento perché se è vero che, ai sensi dell'art. 2096 cod. civ. come il datore di lavoro è obbligato a consentire l'esperimento e il lavoratore è tenuto a fare l'esperimento medesimo oggetto di prova, è altresì vero che l'adempimento dell'obbligo e dell'onere dell'una e dell'altra parte non si sottrae alla regola generale che impone di dare esecuzione al contratto secondo correttezza e buona fede; ovvero con criteri e modalità di comportamenti ispirati a lealtà, che, nel rapporto di lavoro in prova, si traducono nel fare o non fare tutto ciò che possa concorrere o, invece, impedire il realizzarsi della funzione propria del patto. Inoltre (vedi Cass. n. 2631/96), se la prova è stata solo parzialmente eseguita, ovvero se è stata attuata con modalità tali da impedire al lavoratore di esprimere le proprie attitudini professionali, il recesso è nullo per violazione di norme imperative (art. 2096 cod. civ.). Per altro (Cass. n. 14569/99 e n. 1387/2000) il lavoratore in prova deve avere la possibilità di impegnarsi secondo un programma ben definito in ordine al quale poter dimostrare le proprie attitudini, sicchè il potere di recesso è illegittimamente attuato, se lo stesso lavoratore non sia stato posto in grado, per omessa concreta attribuzione delle mansioni, di sostenere la prova». Applicando questi principi al caso in esame, la Corte d'Appello ha ritenuto scorretta l'avvenuta utilizzazione della lavoratrice, non giustificata da ragioni tecniche e/o organizzative, presso unità produttive diverse da quella indicata nell'atto di assunzione ed in mansioni varie, alcune delle quali appartenenti ad un livello superiore rispetto a quello attribuito, così impedendo l'inserimento nell'ambiente di lavoro e la dimostrazione delle effettive capacità ed attitudini: il recesso doveva quindi considerarsi illegittimo, «non sussistendo la necessaria relazione causale tra il recesso medesimo e l'esito (negativo) della prova, con violazione sia del contratto individuale di lavoro, sia del principio di correttezza e buona fede contrattuale». I giudici di secondo grado, una volta acclarato che il patto di prova era stato illegittimamente apposto, hanno ritenuto il rapporto di lavoro sorto sin dall'inizio definitivamente e quindi l'applicabilità, nei suoi confronti, della norme di tutela, compresa quella sulla stabilità reale